mercoledì 8 gennaio 2014

L'eroe discreto - Mario Vargas LLosa

Se Varguito avesse scritto solo romanzi come Le avventure di una ragazza cattiva o L’eroe discreto prima del Nobel, col cavolo che glielo avrebbero dato, o quanto meno  avrebbero dovuto modificare di sana pianta le motivazioni, che "la sua cartografia delle strutture del potere e la sua tagliente immagine della rivolta, della resistenza e della sconfitta dell'individuo" ("La guerra della fine del mondo" da solo vale tutta la motivazione), ci appizzano come cavoli a merenda, in libri di siffatta stoffa. 
Una buona stoffa, naturalmente, perché Llosa è un narratore accattivante, e L’eroe discreto, due romanzi in uno, due storie che si alternano in modo indipendente e poi voilà, secondo i più puri canoni del romanzesco si intersecano nel finale, è un libro tutto sommato godibile. 
E’ la questione delle strutture del potere ad essere totalmente assente. 
Sempre di sconfitte e di rivolte si narra, ma queste sono confinate nella dimensione intima, privata, sul piano che definirei “sicumera degli affetti”.
Dunque il vero nodo del romanzo è nelle dinamiche familiari o meglio ancora generazionali e affettive (o anaffettive, che si può scegliere una vita a patella accanto ad un uomo per “espiare” le colpe, anche), ma il modo in cui vengono “risolte” o “esplicitate” resta confinato in una dimensione patinata , e fatti i debiti distinguo in ordine alla qualità, oserei dire da telenovelas, con le iterazioni e ripetizioni tipiche della sceneggiatura del genere (mi ami pablo?dimmi che mi ami pablo. Mi hai detto che mi ami pablo? Allora mi ami pablo).

L’eroe discreto è Felicito, proprietario di una ditta di trasporti, un uomo comune, insignificante anche nell’aspetto, minutino minutino, che fa ferro e fuoco pur di non pagare il pizzo che gli viene richiesto attraverso delle lettere firmate con un ragnetto. 
La mafia? Un’entità mostruosa e sfuggevole, che si infiltra in tutti gli strati della società corrodendola, piagandola, o qualcosa di molto meno distante, che distrugge le sicurezze di una vita intera (o dà forza ai moti oscuri del cuore), e che per questo ferisce ancora di più?
Felicito viene definito nel romanzo un uomo “etico”. 
Non so quanto possa essere “etico” o “eroico”, seppure discreto, un uomo come Felicito. 
A me è sembrato ottuso e meschino - vivere anni e anni con il dubbio che, senza mai parola proferire, tollerare una “buona moglie” che spende e consuma poco e che è poco più di un’ombra – ma alla fine, nonostante il moto di rivolta, Felicito resta quello che è sempre stato, anche se una "brava persona", un uomo piccolo piccolo, soprattutto nel considerare le ragioni del “sangue del proprio sangue” prevalenti su qualunque altra considerazione.

Nell’altra storia, il protagonista è Rigoberto ( quello de "L’elogio della matrigna" e dei quaderni), osservatore e testimone di un’ulteriore vicenda che determinerà lo snodo in cui convergeranno le narrazioni alternate. 
Mi ha fatto impressione ritrovare Rigoberto, la sua consorte Lucrecia e giovincello Fonchito , rappresentati come la famigliola mulino bianco, turbata stavolta non da pruriginosità ma dall’inquietante figura di Edilberto Torres. 
Tuttavia ogni tanto guizzano nel testo frasi che riportano alla memoria tutt’altre storie: 
"- Ecco che spunta fuori il prete, Pepìn, - si indignò Rigoberto. – Vuoi dire che mio figlio potrebbe essere un angelo? 
- Un angelo senza ali, però, - rideva Lucrecia, con autentica allegria e gli occhi accesi di malizia."

Non sono soli don Rigoberto & family a fare revival , anche Lituma, il Lituma degli invincibili e de "La Casa Verde", ha una parte nel romanzo. 
Mi sono chiesta il motivo di questi ritorni, ma la risposta che mi sono data di sicuro non piacerebbe a Vargas LLosa. 
Vabbuò, vedremo nel sequel, che le premesse per ulteriori sviluppi ci sono tutte.

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