lunedì 28 ottobre 2013

Bambini bonsai - Paolo Zanotti

Bambini Bonsai
E’ un romanzo indefinibile, “Bambini bonsai”. 
Se provassi a raccontare la trama, potrebbe sembrare un libro per criaturelli. 
Ma non è un libro per bambini, è un libro sui bambini, è un libro sulla presa di coscienza che “l’infanzia finisce, e che una bambina bonsai non la si può sradicare.” 
Sono le ultime parole del libro.

La bambina bonsai è Sofia. 
Sofia ha occhi come gialli e polposi come albicocche, e il suo viso è riprodotto su ogni cosa: scatole, figurine, poster. 
Sofia è come la principessa addormentata da un malefico sortilegio, e un piccolo scudiero coraggioso e innamorato la sveglierà dal suo sonno, la porterà via dal castello, ad affrontare la vita, anzi, la morte. 
Detto così sembra una fiaba, ma della fiaba il romanzo di Zanotti ha solo la ricchezza delle invenzioni, le magie e la valigia di Petronilla, la capo-banda, il deus ex machina dell’inganno e dello svelamento. 
Ma non è una fiaba, lo scenario sembra quello di un romanzo distopico apocalittico fantascientifico: è ambientato in una Genova franata e compressa, in un tempo forse non troppo remoto dove tutti gli animali sono scomparsi, dove tutte le isole del Pacifico sono sommerse da un mare che sembra un mostro di plastica e munnezza, e dove ai padri, se vittime di incidenti, si sostituiscono i pezzi mancanti con protesi meccaniche; dove il sole brucia e fonde, tant’è che solo nelle serre si potrà vivere, dopo l’ultima pioggia, quella che porta anche il gelo e il freddo, quando anche l’ultimo grande agglomerato della città, il cimitero di Staglieno, affollato di case arroccate tra le tombe, lapidi, guglie e statue, verrà abbattuto. 
Ma non è neppure un romanzo distopico fantascientifico nel senso stretto, perché i protagonisti sono bambini che approfittano della pioggia, un evento terribile e mostruoso per compiere il rito di passaggio dall’infanzia (la prima vissuta quasi tutta in un secchio) all’adolescenza e poi all’età del disincanto, all’età adulta, approfittando del “letargo” , del sonno degli adulti. 
Dice Pepe, il protagonista che racconta del suo tempo della pioggia: 
E allora mi chiedo (…) se anche di fronte alle piogge violente, alle piogge vere, la reazione degli adulti non fosse dettata solo dall’istinto, da un’incapacità naturale di venire a patti con la pioggia, ma anche da qualcosa di più ambivalente, un groppo di emozioni che comprendeva la paura del sovvertimento dei giorni, il lutto per le terre erose e sommerse, la nostalgia di quando si erano sentiti vivi. In fondo, dice qualcuno, la paura non è che la sorella cattiva della nostalgia.” 
I bambini approfittano della “vacanza” dei grandi, riunendosi in bande, per fiondarsi in un mondo alieno e spaventoso - una grande avventura - dove tutto si può fare: occupare le stazioni e giocare a fare i mercanti, rintanarsi in una galleria per fare grandi sfide con le automobili, incontrare il mare, grande mostro morente.

E’ forse un romanzo di formazione, scritto in un modo assolutamente originale, ma è soprattutto un romanzo sul potere straordinario dell’immaginazione che è propria di una certa età, quando tutto è possibile: parlare ed essere amici delle statue e di animali estinti, evocare greggi di pecore e animaletti sui bordi dei secchi; di un tempo in cui anche la paura è attraente, e si possono affrontare le ire della natura foderando le scarpe con il cartone; doti a cui, costretti nella gabbia dell’adultità, dobbiamo rinunciare per seguire sogni e segni più concreti. 
E’ stata quella la mia prima perdita. Bambino cresciuto nell’agglomerato senza varcarne mai i cancelli, fino a quel momento mi ero illuso che crescere significasse solo accumulare cose nuove. Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente.”

E’ un romanzo sulla nostalgia di un tempo che non ritorna e che non si può bloccare, così come non ritornano le nuvole vere nel cielo di serra di Pepe adulto.


venerdì 25 ottobre 2013

Hanna e le altre - Nadia Fusini

Hanna e le altre
“Sembra che abbia fatto un bel compitino, ma proprio un compitino”, mi ha detto un’amica a cui questo saggio di Nadia Fusini non è piaciuto molto.
Non condivido, non del tutto. 
Ora sicuramente so qualcosa di più di Simon Weil, di Rachel Bespaloff (che non avevo mai sentito manco nominare), di Hanna Arendt, e anche di tutte le comparse e dei personaggi di sfondo (tra cui ad esempio la Némirovsky) 
Ne so molto di più di quanto ne avrei potuto sapere se avessi spulciato una fredda pagina di Wikipedia o una pallosissima monografia di qualche professore sbrodolone. 

Ecolalie, ecolalie, è una parola ripetuta nel testo della Fusini.
E’ un libro fitto fitto di rimandi, rimandi che svelano un’ “intelligenza” al femminile nell’interpretare e leggere il mondo e la storia. 
Riporto, tra i tanti che ho segnato, un passo che non è “chiave”, che non spiega e non chiarisce il libro, eppure mi rimbomba in un’eco del tutto personale. 
“E non è affatto superbia, il suo distacco, come molti sbagliando credono; Hannah è umile: Hannah ama il mondo, ha semmai un vero e proprio genio dell’amicizia. Ma così come l’intende lei, l’amicizia non è necessariamente intimità, è piuttosto il sentimento oggettivo di “fare un pezzo di strada insieme”. Nel pensiero, naturalmente.”

domenica 20 ottobre 2013

Di vita si muore - Nadia Fusini

nadia fusini
E’ un saggio passionale, il lavoro della Fusini. 
Il prologo è una delle cose più fascinose che abbia letto, induce una smodata voglia di conoscere Shakespeare, ma di conoscerlo come la propria pelle. 
(come un amante) 
Nadia Fusini analizza in modo viscerale (nell’accezione più ampia del termine) una tragicommedia , Misura per misura, e cinque tragedie: Giulio Cesare, Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth; ma vi sono riferimenti all’opera omnia di Shakespeare, alla poesia, alla filosofia, alla critica del 1500 e secoli più e secoli meno. 
Di vita si muore : la passione (la vita) è ciò che spinge a compimento la tragedia. 
“Sì, un uomo muore per il veleno di sostanze malefiche che lo attaccano da dentro. La morte è un’esperienza interna. Così si stupisce Amleto di fronte all’esistenza. 
Ogni occasione lo riporta sempre lì, a constatare che di vita si muore.” 
Dell’opera di Shakespeare viene esaltata la profonda conoscenza e messa in scena degli elementi passionali dell’esistenza umana: la passione della ragione che spinge Bruto ad uccidere Cesare e poi se stesso; la passione del dolore, il lutto, che stravolge Amleto; la lussuria, in “Misura per misura”; l’odio di Iago (il vero deus ex machina, il motore primo nella tragedia Otello); l’ira, la pietà, la paura. 
“E’ vitale morire, è mortale allearsi con l’istinto alla quiete”  
L’analisi della Fusini è puntigliosa, si sofferma non solo sulle azioni e sulle battute, ma anche sulle singole parole, sull’etimologia, sul perché Shakespeare ha scelto proprio un termine specifico e non un sinonimo. Passione al cubo, in questo saggio: la palpabile passione dell’autrice per William, la passione di William per le umane passioni. 
Tuttavia mi difettano i fondamentali, per plaudire o criticare: non ho letto le tragedie di Shakespeare (e manco conosco la poesia e la filosofia e i testi biblici dall’origine della scrittura ai tempi nostri). Da lettrice non edotta, posso solo esprimere le impressioni epidermiche senza entrare nel merito dell’analisi : una eccessiva prolissitudine , un pò di scetticismo quando la lettura in chiave cristiana dei personaggi e delle azioni diventa invasiva e pervasiva (e può pure essere, però a tratti mi sono sembrate proprio esagerazioni). 
Per il resto debordantemente e sinceramente appassionante (come sottotitolo comanda).


venerdì 18 ottobre 2013

L'ubicazione del bene - Giorgio Falco

Falco Giorgio
Pensavo che si trattasse di un romanzo, e invece è una raccolta di racconti. 
Pensavo che fosse un libro di impianto filosofico (quando si dice l’inganno del titolo), ragionamenti intorno all’idea di bene come cosa buona e giusta, e invece la narrazione ha un tono terrestre, quotidiano, e il bene è un bene materiale: una villetta ubicata a Cortesforza.

Un filo conduttore tra i racconti però c’è, ed è quel luogo. 
Non esiste, Cortesforza, borgo residenziale a qualche chilometro da Milano, eppure di Cortesforza sono piene le aree periferiche delle grandi e piccole città. 
Tutte le cose accadono entro venti chilometri. La distanza da casa al lavoro, da casa al supermercato. Venti chilometri. All’inizio lui pensa che quello spostamento sia un piccolo viaggio, dopo dieci ore di lavoro può ricomporre se stesso, ma al semaforo di Trezzano sul Naviglio lui fa parte di una promiscuità aggressiva, volgare, feroce nel cercare il proprio posto nel mondo, conta solo avanzare mezzo metro, allungare i radiatori accaldati per conquistare o difendere la posizione, una distesa di lamiera urlante, lo sbuffo bianco delle marmitte, le gocce cancerose che istillano, ancora prima della malattia, un amarognolo diffuso e incredulo, una distesa di lamiera parlante ora opaca ora illuminata da improvvise schegge di rosso, che tracimano dall’asfalto alle sponde del Naviglio Grande, fino all’acqua nera, che riflette.” 
(pari pari al ritorno a casa via tangenziale o circumvallazione esterna, anche se non ci sta il Naviglio e manco l’acqua nera)

La villetta con il giardinetto, la casarella dove vivere quieti gli anni della pensione se un figlio pazzo non ti porta un boa in casa, il nido dei freschi sposini o la casa dove accogliere l’uccellino degli sposini un poco sereticci, l’appartamento senza balconi, il casale da ristrutturare, il capannone diventano scatole di vetro dove vengono esposte le fratture, le crepe, le voragini della vita contemporanea: acredini e insoddisfazioni, incomprensioni e frustrazioni, perdite e smarrimenti, solitudini. 
Uammamà, e che tristess.

(I racconti sono scritti bene, il taglio e la prospettiva interessanti. La materia narrata, quella, ce l’ho sotto gli occhi e preferirei guardare altrove, è l’altrove che mi serve per non rischiare la neuro, ma tant’è, c’è a chi piace il coltello nella panza e si arricrea pure. 
Io no.)

domenica 13 ottobre 2013

Il vangelo secondo Biff - Christopher Moore

Biff
Moore, autore da cazzeggio per eccellenza, ha avuto un’idea  geniale, raccontando la  storia  del leader  maximo del cristianesimo, visto con l’ottica di un amico la cui presenza è cancellata da  tutti i vangeli.

Levi detto Biff era un discepolo. Anzi, molto più che un discepolo, più ancora che il primo discepolo: era l’amico del cuore di Gesù sin dall’infanzia.

E’ l’angelo Raziel ( ho controllato, esiste veramente nella gerarchia angelica cherubinica arcangelica, è una specie di messaggero che fa da tramite tra le alte sfere e i terrestrini), nell’immaginario Mooriano personaggio inzallanuto e pure baccalone, a recuperare dalla cenere della cenere il caro Biff, e a costringerlo, trattenendolo in una camera di albergo,  a scrivere la sua versione dei fatti accaduti 2000 anni prima. 
(mentre in contemporanea, Maria Maddalena detta Maddi scrive la sua) 

Ed è proprio  nell’interregno tra la nascita e i trent’anni di Gesù, ovvero gli anni cruciali della formazione di ogni essere umano, dove la tradizione pone il vuoto narrativo, che Moore dà il meglio di sé.
Attraverso e con la partecipazione straordinaria di Biff, racconta dell’infanzia di Gesù e dei superpoteri da controllare (mica tutti riescono a incantare i serpentoni), degli scompensi ormonali adolescenziali e dei dubbi esistenziali (sono o non sono il figlio di Dio?), del viaggio verso Oriente alla ricerca di chi possa guidarlo a far bene il ruolo di Messia. 
Chi meglio dei re magi avrebbe potuto interpretare il ruolo di maestri?
Saranno loro  i maestri di Gesù e del riottoso Levi, che di certo  non era mica il Messia, sicchè è ovvio che pur con l’impegno non sarebbe mai riuscito  a incartocciarsi in una brocca per il vino,  a guarire, a  resuscitare, a praticare l’astinenza sessuale.
Tante avventure e tanti incontri faranno i nostri eroi, dalla  Persia fino a Kabul per trovare Baldassarre,  fine alchemista, esperto in Confucio e  Tao (compassione, sobrietà e umiltà) e in Chi e Qi, in Yin e Yang,  ma ingrippato e prigioniero di un demone e di uno stuolo di cinesine nella folle ricerca dell’immortalità.
E da Kabul alla Cina, per apprendere dal maestro Gaspare i fondamenti del Buddhismo (compassione e amore incondizionato) e i rudimenti del Kung fu, tra  yak e abominevoli uomini delle nevi e abominevoli vecchie delle capanne,  fino in India, dove, bypassati  i sanguinari devoti di Kalì (scompiscianti le sequenze del travestimento da dea della distruzione)  Gesù e Biff  incontreranno   Melchiorre, l’asceta arroccato nella montagna. 
Per un po’  le loro strade  si divideranno, ognuno  a seguire le proprie attitudini specifiche, Gesù a interiorizzare i principi del Bhagavad Gita,  Biff a imparare e praticare  il kamasutra.   
Moore non  risparmia nessuno tra i rappresentanti delle grandi religioni, e meno male che Maometto è venuto dopo, che altrimenti almeno un migliaio e mezzo di fatwe se le sarebbe attirate.

Negli ultimi capitoli, pur interpretando in modo “scanzonato”  i tempi della predicazione  e della passione,  il racconto assume una venatura dolente, melanconica, “ispirata”.
La “blasfemia” in questa storia è solo apparente:  si legge un sentimento di profondo rispetto e stima nei riguardi della figura di Gesù, che incarna il meglio del meglio di tutte le religioni precristiane. 
Non è certo un miscredente, Moore. 
Solo un cazzeggiatore. Ed è per questo che avrei preferito di gran lunga che avesse fermato Biff e il suo racconto/vangelo  prima di arrivare in Galilea.
Biff sarebbe potuto  morire di sifilide, o anche per una caduta da cammello (da ‘mbriaco, s’intende), e la sua testimonianza quale amico di infanzia di Gesù avrebbe avuto il medesimo valore.