domenica 29 dicembre 2013

I giochi della notte - Stig Dagerman

Ancora solitudini, ancora disperazioni, ordinate secondo un crescendo: nei primi racconti i protagonisti sono bambini e ragazzi, poi delle coppie adulte, e nell’ultimo c’è un vecchio.
Cosa fanno i bambini per cercare di proteggersi dalle brutture del mondo? Immaginano, si illudono di poter  controllare il mondo cercando di condurre i sogni nella vita.  
Così sono I giochi della notte che fa Aeke, per cercare di dominare l’angoscia determinata dai pianti e dai singhiozzi della madre e dall’assenza notturna del padre -  in quale bar, in quale bettola .
Il padre rientra , e “in cucina l'angoscia è così grande che sarebbe insopportabile senza un'arma, ma alla fine Aeke è talmente stanco di avere così tanta paura che senza opporre resistenza si lascia cadere a capofitto nel sonno.”
E di giorno?
Non resta che la fuga.

Comincia lì, nel  grumo dei  primi anni di vita, a mettere radice l’albero della tristezza, da cui gemmano man mano che la consapevolezza si fa più chiara e più forte, il senso di estraneità  e di disadattamento, e di smisurata solitudine.

Essere poveri aggrava.
In Nevischio e Carne salata e cetrioli, è il guardare le scarpe bucate a fare la differenza.
E la vergogna.
Ma il giudice che avevo dentro, che doveva essere più maturo dei miei nove anni, mi disse alla fine che avevo agito da autentico vigliacco: era rubare prendere quello che noi avevamo gettato via?

Nei racconti centrali, Lo sconosciuto, Uomini di carattere, Gli implacabili, l’attenzione di Dagerman si pone all’interno delle  dinamiche di  coppia: gelosia, incomunicabilità, disaffezioni, distanze.
Sono i racconti che, fatta eccezione per Lo sconosciuto, dalla conclusione drammatica e inaspettata, dato  il cambio repentino di prospettiva, mi sono sembrati più deboli .

La torre e la fonte è  il mio preferito.
Un epilogo, in tutti i sensi.

“Si limitava a star lì seduto, ora dopo ora, o magari anche anno luce dopo anno luce, pervaso da una crescente stanchezza. La stanchezza va molto bene, la stanchezza va sempre bene, in particolare quando ci si esercita nell'arte amara di essere prigionieri di se stessi. Anche una grande calma e una certa capacità di mantenersi freddi vanno molto bene, perché l'uomo deve avere i nervi molto saldi per potersi sopportare.”

Il viaggiatore - Stig Dagerman

Di Stig Dagerman non ne avevo mai sentito parlare. 
Eppure è stato uno scrittore molto apprezzato in patria - la Svezia - dal pubblico e dalla critica.
Un successo con il quale lo stesso autore, uomo inquieto, fragile e durissimo  soprattutto verso se stesso,  ha dovuto fare i conti. 
Insofferente verso ogni forma di “costrizione” e di “ingiustizia”, era vicino agli ambienti anarchici, aveva  curiosità multiformi e anche la sua produzione riflette la molteplicità dei suoi  interessi:  dalla poesia ai testi teatrali, dal romanzo al racconto breve, dal saggio agli scritti apologetici,  Dagerman è stato scrittore piuttosto prolifico, e probabilmente lo sarebbe stato ancora di più, se la depressione non avesse agito da bloccante negli ultimi anni della sua vita, se non l’avesse condotto al suicidio, a 31 anni, nel 1954.

Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione. Lascio una cattiva reputazione e la promessa di una ancora peggiore. Lascio qualche centinaia di migliaia di parole, alcune scritte con piacere, la maggior parte per noia e per soldi. Lascio una situazione economica miserabile, un’attitudine vacillante rispetto ai grandi interrogativi del nostro tempo, un dubbio usato ma di buona qualità e la speranza di una liberazione.
Porterò con me nel viaggio un’inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe:
QUI RIPOSA UNO SCRITTORE SVEDESE
CADUTO PER NIENTE 
SUA COLPA  FU L’INNOCENZA
DIMENTICATELO SPESSO”

E’ uno dei quattordici scritti compresi nella raccolta, quello che ne dà il titolo, "Il Viaggiatore".
Nove  i racconti: i personaggi sono gente comune, bambini e nonne, adolescenti, studenti e studenti che non possono più permettersi di esserlo. 
La Svezia si sente poco, nei racconti di Dagerman, e se non ci fosse qualche nome proprio, potrei dire che la radice storico-geografica non esercita alcun interesse sull’autore. 
Ci sono fattorie isolate ,  o appartamenti in condominio  in città anonime e grigie, e poco importa che si chiamino Uppsala o Stoccolma o Vattelapesca. 
Potrebbero  essere  campagne o  sobborghi  di qualunque  città occidentale  i luoghi dove si consumano piccole e grandi tragedie :  bambini colti nel momento della consapevolezza della loro misera esistenza, quasi invisibili (L’auto di Stoccolma), ignorati e snobbati (La sorpresa);  adulti travolti da un attimo che peserà   per sempre,  perché non si può  “avere indietro un unico minuto della sua vita per far sì che quest’unico minuto possa essere diverso” (Uccidere un bambino e Una tragedia minore, i due racconti secondo me più riusciti della raccolta).

In uno scritto postumo , “Stig Dagerman, lo scrittore e l’uomo”, l’autore così parla di sé, in terza persona:
Per quel che riguarda lo scopo Stig Dagerman non dovrebbe avere dubbi, dato che ha iniziato la sua carriera proprio manifestandolo: descrivere, in una forma congeniale alla propria personalità, l’essere umano nella sua lotta per liberarsi dal bisogno, dalla paura, dalla miseria, dalla bruttezza, dalla stupidità e dalle convenzioni contrarie alla vita.

E invece, di fatto, quello che descrive  non è la lotta, ma il momento del fallimento,  della sconfitta, della perdita , della rottura: l’attimo in cui il peso gravoso del bisogno, della paura, della miseria, della stupidità e dalle convenzioni contrarie alla vita sopraffanno l’uomo, e più in particolare il bambino, l’adolescente, e rivelano l’oceano di sofferenza nel quale, privati del candore dell’innocenza, saranno  condannati a vivere. 
Il peso che lui stesso non è riuscito a sopportare.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il sentiero dei nidi di ragno - Italo Calvino

Pin
Chissà cosa farà Pin nella mano soffice e calma del Cugino, in quella gran mano di pane, dopo che avrà terminato di camminare insieme a lui nel mare di lucciole. 
Chissà se sopravviverà alla guerra partigiana, se acquisterà una coscienza di classe, se tornerà a tormentare gli avventori delle osterie con le sue canzonacce e con le battute, se diventato grande comincerà ad andare dietro le gonne delle donne, o le disprezzerà, come Cugino, se racconterà della sua avventura fingendo di esser stato Lupo rosso, se…

Pin è un bambino, ma non gioca con i piccoli come lui e non capisce i grandi, con i quali, di necessità virtù, finisce per trascorrere il suo tempo, bevendo vino gratis anche se non gli piace nelle osterie dei carruggi, fino a quando, per aver compiuto una bravata - che niente altro significava rubar la pistola al tedesco, mostrare quanto fosse bravo e coraggioso - finisce in galera, e poi dopo una rocambolesca fuga su per i monti coi il più scalcagnato gruppo di partigiani, quello del Dritto, che è malato, molto malato.
Di questo romanzo, il primo scritto da Calvino, è stato detto di tutto e di più ancora. 
Basta spulciare la pagina di wikipedia per trovare trama, analisi sistematica dei personaggi, dei luoghi, dello stile e del linguaggio, valore traslato etc. 
Ma nessuno potrà dire di questo romanzo meglio di quanto ha fatto Calvino stesso, nella prefazione scritta per la seconda edizione (versione corretta, e mannaggia la morte me la vorrei proprio leggere la prima per individuare le differenze) dopo quasi 15 anni dalla prima pubblicazione. 
La prefazione è davvero uno straordinario pezzo di riflessione sulla letteratura, sul neorealismo, sul bisogno di scrivere, sulla Resistenza, sul tempo in cui il furore ha incanalato l’individualismo in un “sentire” comune. 
Quanto ho adorato quella finta innocenza nel voler cambiare rotta e impostazione, quasi a voler rendere tangibile il furore, che davvero il furore è qualcosa che si sgancia dalla logica e dai programmi:

"(è meglio che riprenda il filo; per mettersi a rifare l’apologia del “neorealismo” è troppo presto; analizzare i motivi del distacco corrisponde di più al nostro stato d’animo, ancor oggi)"
"(Ora ho trovato il punto: questo rimorso. E’ di qui che devo cominciare la prefazione)"
"(Devo ricominciare da capo. M’ero cacciato in una direzione sbagliata: finivo per dimostrare che questo libro era nato da un’astuzia per sfuggire all’impegno; mentre invece, al contrario…"
"Devo ancora ricominciare da capo la prefazione. Non ci siamo. Da quel che ho detto, parrebbe che scrivendo questo libro avessi tutto ben chiaro in testa: i motivi di polemica, gli avversari da battere, la poetica da sostenere…"
E’ un Calvino ancora giovane, ma davvero è già tutto lì.

mercoledì 27 novembre 2013

Il libraio che imbrogliò l'Inghilterra - Roald Dahl

il libraio che imbrogliò l'Inghilterra
Io mica lo sapevo (e quando mai) che Dahl aveva scritto anche testi non destinati propriamente ai fanciulli. 
(che quelli per i fanciulli mica è cosa brutta e ingiusta leggerli da adulti) 
“Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra” è uno dei due racconti contenuti nel volumetto, l’altro è Lo scrittore automatico. 
Un libro da seduta in ambulatorio medico, da fila alla posta, da attesa alla metropolitana, insomma, un libro ideale per ammazzare un’attesa, data la sua brevità. 
(o quando càpitano certi periodi in cui si riescono a leggere al massimo tre/quattro pagine con l'occhio a tre/quarti d'asta la sera nel letto)

Ho molte perplessità sullo stile dei racconti, sulla caratterizzazione dei personaggi, sulla caratura dei dialoghi, poiché conservano l’impronta “semplice” dei libri per ragazzini. 
Ad esempio, il libraio imbroglione e la sua segretaria mi hanno ricordato, seppur poco ci somiglino, i signori Sporcelli, untuosi e poco attraenti : 
“Era tozzo, panciuto, calvo e flaccido, e quanto al viso le sue fattezze si potevano al massimo divinare, perché la vista non poteva quasi nulla. Il volto era in gran parte coperto da un’estesa boscaglia di peli neri, ispidi e leggermente ricciuti; “

Però l’idea di fondo di entrambi i racconti mi sembra assai stuzzicante. 
Su cosa possono contare gli imbroglioni della prima storia, se non sull’idea che certe letture sarebbe stato meglio non averle fatte? 
Se si scopre che ciò è accaduto, meglio liquidare in fretta il passato, chiudere la partita e non parlarne più. 
(devo ricordarmi, prima di morire, di far sparire tutti i libri di Fabio Volo dalla mia libreria)
Nel secondo racconto, un inventore (pazzo), reduce dal successo planetario che l’azienda per cui lavora ha ottenuto grazie ad un calcolatore di sua invenzione, e mosso da un impeto di frustrazione e rabbia (mica a tutti riesce di far bene gli scrittori), propone al suo capo una macchina che inventa i racconti, le storie, in modo da saturare totalmente il mercato con i prodotti elaborati dalla macchina, buoni per tutti i gusti, per tutte le mode.
Addirittura migliori di qualunque altro prodotto della penna e creatività umana. 
“Non l’ha fatto per soldi. Ne ha da buttar via.” 
“E perché, allora?” 
Knipe sogghignò, alzando il labbro e mostrando una gengiva superiore lunga e anemica. “Semplicemente perché ha visto che la roba scritta dalla macchina era migliore della sua.”.
Quella che ho riportato è la spiegazione che l’inventore fa al suo capo del perché una scrittrice famosa, e danarosa,  ha acconsentito all'accordo di  mettere la propria firma su un prodotto della macchina.
L’ipotesi che porta all’invenzione dello scrittore meccanico è che come un elaboratore può combinare i numeri risolvendo calcoli impossibili per la mente umana, così uno “scrittore meccanico” può combinare lettere, frasi, parole, trame molto più efficacemente della mente umana. E' assai discutibile come principio, non c’è dubbio, ma non è questo il punto.
Quando Dahl ha pensato al racconto probabilmente non esistevano ancora le scuole di scrittura creativa e neanche le strategie editoriali che fanno di libri pezzotti e appezzottati dei best sellers venduti anche al supermercato , e io non so perché, a questo ho pensato, leggendo lo scrittore automatico. 
Alla preveggenza. 
(e ai generatori automatici, al momento solo di stupidità, ma chi può mai dire domani?)

sabato 23 novembre 2013

Bouvard e Pécuchet - Gustave Flaubert

Il romanzo incompiuto di  Flaubert racconta di due tizi  di mezza età che s’incontrano casualmente in un parco, e seduti alla stessa panchina, si accorgono che entrambi hanno scritto il proprio nome nel cappello.
Quale affinità di pensiero!
(anche dove lavoro io, data l’abbondanza di ombrelli ikea tutti uguali, si è ricorso alla penna per segnare il nome del proprietario sulla fettuccia). 
Nasce un feeling, si frequentano, si scambiano visite di cortesia e, complice una cospicua eredità caduta sul groppone   di uno dei due, decidono di comprare un podere e di ritirarsi in campagna, che la vita parigina li ha un tantinello stufati. 

E qui comincia la loro avventura: di palo in frasca si improvvisano (che non basta mica leggere anche una decina di manuali disciplinari, a cui diligentemente fanno ricorso) agronomi, massai, chimici, astronomi, geologi, archeologi, collezionisti di cianfrusaglie, linguisti, grammatici, storici, politici, rabdomanti, filosofi, oratori, amatori, ginnasti e salutisti, educatori e pedagoghi. 
S’appassionano ad una  disciplina, ad un  campo di ricerca o del sapere, tentano di applicarla, di farla propria, di eviscerarla, di scandagliarla nei minimi anfratti, e falliscono miserevolmente. 
Senza perdersi d’animo riprovano con altro, in un moto che non finisce manco con il libro, essendo esso stesso incompiuto (e la fine sarebbe stata un moto incessante di scopiazzature)
“Qual è il fine di tutto ciò?”
“E se non ci fosse alcun fine?”
“Eppure!” e Pécuchet ripeté due o tre volte “eppure” senza trovare nulla da aggiungere.
Un’estenuante, ma proprio estenuante ricerca di senso  e di verità che li conduce persino sull’orlo del suicidio (ma l’afflato religioso dello spirito del Natale li distoglie, facendoli per breve tratto dedicare alla religione, pure questa, al pari di  tutte le altre scienze e filosofie, al banco di prova dell’indagine ossessiva e compulsiva , si rivela incapace di soddisfare la sete di verità assoluta e inoppugnabile  di Totò e Peppino, no, pardon, di Bouvard e Pécuchet)

Il manoscritto di Flaubert si interrompe allorquando i due protagonisti, falliti i tentativi di educare i due orfanelli avuti in custodia (che lombrosamente conservano in modo irreversibile le tracce delle loro radici, figli di delinquenti e come tali destinati a perseverare nel male), decidono di educare gli adulti. 
La nipote  dello scrittore ha aggiunto degli appunti che “rivelano” il piano dell’opera,  le cui righe finali così recitano: 
“Che dobbiamo farne? “ – “Niente riflessioni! Niente riflessioni! Copiamo! Bisogna che la pagina si riempia. Che il ‘monumento’ si compia… uguaglianza di tutto, del bene e del male, del bello e del brutto, dell’insignificante e del caratteristico. C’è verità solo nei fenomeni.”
Finire con la visione dei due buonomini chini sul loro scrittorio, e che copiano."
Su questo finale appena accennato, i critici si sono arricreati proprio, come ha fatto Franco Rella nella introduzione e come riporta la quarta di copertina: 
Destrutturano il sapere del secolo, e forse, nella decisione finale di copiare qualsiasi cosa, svelano l’insignificanza anche dell’ultima illusione flaubertiana, la scrittura quale mezzo per dare un senso alle cose.
(la copia è la risorsa unica di chi non ha pensiero proprio)

E’ un libro che avrei trovato interessantissimo se l’avessi letto una vita fa, quando ancora era vivo e vegeto  un certo scrupolo accademico  (una proposta di tesi di laurea su B e P, uammamà!, e quanta trippa!). 
Ma ne è passata acqua sotto i ponti, e dopo le prime 80 pagine  l’estenuanza (lo so, non esiste sta parola, embè?)  ha avuto il sopravvento, e poco divertenti mi sono sembrate le goffaggini, le ingenuità, le incornature, gli sfottò e l’enorme ammasso di riferimenti a filosofi, scrittori e compagnia cantando. 
Tutto per niente. 
Le appendici Dizionario dei luoghi comuni, Catalogo delle idee chic, e Sciocchezzaio, almeno quelle, le ho bellamente ignorate.



(e ancora per la serie Vanità delle vanità, è anche qui
http://www.ilpickwick.it/index.php/letteratura/item/854-bouvard%C3%B2-e-p%C3%A9cuchett%C3%B2-flaubert-ti-voglio-bene-per%C3%B2-ora-no


giovedì 21 novembre 2013

Il Profumo - Patrick Süskind

Vi è un qualcosa un qualcosa di eccessivamente morboso, nel libro di Süskind. 
(l’ossessione) 
E di geniale, in un certo senso. 
(il fiuto del successo)

La storia è quella di un uomo, tale Grenouille, nato, anzi, espulso dal grembo di donna tra le interiora dei pesci, sotto un bancone al mercato; un uomo che è stato fin dall’inizio un “…mostro. Si decise a favore della vita per puro dispetto e per pura malvagità. Naturalmente non decise come decide un adulto, che per scegliere fra varie opzioni usa la sua più o meno grande ragionevolezza ed esperienza. Ma decise al modo di un vegetale, così come un fagiolo gettato via decide se deve germogliare o se è meglio lasciar perdere” pag. 26 

Ecco, di fronte alla “consapevolezza del fagiolo” (o della zecca), non ho potuto trattenere un fremito. 
(preferisco credere all’esistenza di un binario 9 e ¾ da cui parte il treno per Hogwart, piuttosto che a quella di un bambino che nasce malvagio).

Grenouille, il mostro, è un essere dotato di un olfatto straordinario, ha il potere di percepire e distinguere e memorizzare ogni tipo di odore. 
Egli però, come tutti i geni e i “fuori norma” della letteratura, è un uomo profondamente solo. 
Per sette lunghi anni si basta da sé, si allontana dagli uomini e si rintana nel buco del culo della grotta della montagna più alta di Francia, diventando, attraverso la sua memoria, il sancta sanctorum dell’esistenza olfattiva del mondo. 
(l’odore è la sua mancanza e la sua ossessione) 
Ma Grenouille è un malvagio, e come tale non può rinunciare all’ambizione propria di tutti i malvagi, ovvero a quella di “dominare il mondo”. 
L’ immaginazione prima, l’ abilità tecnica, la totale impermeabilità etica (è un mostro), la smodata ossessione (e ambizione), portano Grenouille, “colui che dominava gli odori”, a produrre un’essenza talmente potente da impossessarsi del cuore degli uomini, da piegarli all’adorazione. 
Una sottomissione talmente smodata da annebbiare qualunque remora controllo ratio. 
Tale intordundimento si esplicita in un’orgia collettiva: la folla stipata nella piazza, indistintamente, sollecitata dalle due gocce di profumo sul corpo inodore di Grenuoille, cade in preda alla compulsione copulatoria. 
E se due gocce hanno il potere di piegare la folla ad ogni tipo di pratica sessuale, cosa può mai succedere se Grenouille, il malefico detestatore dell’umanità, si versa addosso tutto il contenuto della boccetta ? 
E’ l’epilogo, ça va sans dire.

Si possiede totalmente solo quello che entra dentro, entra in circolo, dentro il corpo? 
Si viene posseduti totalmente solo da quello che entra dentro, entra in circolo, dentro il corpo? 
(sono posseduta da una profumatissima tavoletta di cioccolato fondente con nocciole intere) 
Ehemm.

“Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell'apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l'aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c'è modo di opporvisi.” pag. 88 
Mah. 
Il libro esercita una sorta di attrazione morbosa, legata furbescamente alla centralità del potere di un senso, l’olfatto, ma a conti fatti, e fuori dalla metafora dell’uomo accecato dall’ossessione e in nome della quale si crea e si distrugge, è davvero solo puro macabro intrattenimento. 
Va bene, si può leggere tra le righe la critica ad una cultura che si crede “illuminata” e “illuminista” ma che di illuminato non tiene proprio niente (il fluidum vitale), ma tra le molte altre righe si possono leggere un montone di cavolate. 
Se è vero che la chimica degli odori è alla base di alchimie d’attrazione e di repulsione, è ancora più vero che non può esistere un odore universale così come non esiste un sapore universale.

Il senso dell’olfatto - il dominio, il controllo e la emozionalità degli odori, la loro pungente pervasività - e la creazione di un personaggio “originale” , avrebbero potuto davvero essere una chiave di volta per costruire un’opera di grande profondità. 
E invece.

venerdì 15 novembre 2013

Il tempo di una canzone - Richard Powers

Richard Power - il tempo di una canzone
Il tempo di una canzone dura quanto un assolo, e mille anni. 
Esiste ancora il razzismo? Non lo so, vedo a colori. 
Lo scontro, adesso, qui (e sempre e dovunque) non è tanto tra razze, quanto tra modus vivendi. 
Ma in America, almeno fino agli anni ’60, il fattore razziale non era bazzecola. 
Essere neri, o diversamente colorati, significava non essere bianchi, e dunque non essere. 
Powers scrive di questo (e di molto altro). 
Il filo conduttore è la storia di un pesce e di un uccello che si innamorano. 
I loro figli, cresciuti non ad occhio, ma ad orecchio, musica e canto formano le parole del pensiero, citazioni impazzite, mescolio di suoni che fondono le Storie dell’uomo, - Chi sono? Chi vorrai essere - , pensano che l’albero su cui i genitori hanno costruito il nido sia stato abbattuto, e volano oltre il cielo, (come angelo), o nuotano sotto l’ acqua (come pantera – sì, lo so, capirà chi legge il libro), o stanno immobili, trascinati dalla corrente (come foglia). 
Me è solo una questione di tempo. 
Relativa, molto relativa. 
“Il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati, le siamo. Ma poi, in un mondo così, chi siamo deve essere tutte le cose.” 
Aprire gli occhi e vedere che il nido non era sull’albero, ma a pelo d'acqua, sul filo dell'orizzonte. 
Lì dove c'è il passato e il presente e il futuro, il melting pot e il sogno americano in tecnicolor. 
(ecco, forse sul finale happy happy we are the future non mi ci ritrovo granchè)

La storia di David e Delia, uccello e pesce, fisico ebreo tedesco bianco lui, cantante della classe alta nera lei, e dei loro figli "diversamente colorati", Johan, Joseph e Ruth, delle stirpi familiari dei vivi e dei morti, vengono raccontate dal secondogenito, e coprono il lungo secolo breve, mettendo in note conflitti interiori, familiari, di stirpe, di razza, di nazioni, di civiltà. 
La musica è il sottofondo costante. 
Musica che salva e che marchia, che unifica e che divide. 
Ma alla fine, si deve convenire, le note sono un alfabeto comune a tutti i linguaggi. 
Delia e David erano avanti, molto avanti. 
(non sempre i figli sono migliori dei genitori)

Se avessi avuto un minimo di conoscenze musicali (a parlar di suoni coi sordi è dura) me lo sarei goduto di più. 
Se fosse stato più breve, anche. 
Limiti miei, perché il libro è davvero bello.

domenica 3 novembre 2013

La lucina - Antonio Moresco

la lucina - moresco
La lucina è un breve romanzo , anzi, con le parole dell’autore all’editore, “ è una piccola luna che si è staccata dalla massa ancora in fusione del mio nuovo romanzo, che si intitolerà Gli increati. 
La lucina è nata da uno spunto di poche righe, solo una piccola scena annotata negli appunti che ho buttato giù per anni in vista degli “Increati”.
Ecco, leggendo questo libricino, non so se mi verrà mai voglia di leggere gli Increati, quando (e se, dato il titolo) sarà pubblicato.
Eppure La lucina è un libro che s’attacca, non passa via facilmente, perché induce il lettore a porsi un’infinità di domande, ancora più di quante se ne faccia il protagonista della storia, un uomo che decide di “scomparire” ritirandosi in un borgo abbandonato sulle montagne, avviluppato in una natura che sembra prendersi la rivincita sulla cultura, su tutto ciò che l’uomo ha costruito.
La natura, in un’ottica che si focalizza sulla lotta per la sopravvivenza, è descritta in modo struggentemente poetico, seppure violento e virulento. 
Tutto il paesaggio, gli animali, la vegetazione, perfino la crosta terrestre coi suoi sobbalzi, hanno una ferocia e una resistenza, una volontà di imporsi e di esistere, anche attraverso le tracce che del passato restano nel presente - come le foglie secche e gli animali morti che diventano humus e alimento per le nuove piante - da lasciare annichiliti. 
(il passo della farfalla che pure morta e stecchita non va giù nonostante i trecento scarichi del gabinetto, fin quando non viene avvolta nel sudario di carta igienica affinchè possa diventare più pesante ed essere trascinata giù dalla forza dell’acqua, è straordinariamente efficace).
La volontà di sopravvivenza e di continuità è la medesima nella specie umana, tale che non sembra piegarsi neanche nella solitudine più estrema, poiché vi è sempre un richiamo, una lucina, che riporta persino il più solitario degli uomini, a cercare il suo posto nel cerchio infinito della vita che travalica ogni cosa “visibile” e persino la morte.

Tuttavia. 
Non riesco a empatizzare con una visione così tragica della natura, mi sono estranei il senso doloroso del riprodursi, la violenza cosmica, la trascendenza ad un tot al chilo. 
Non potrei mai farmi domande sugli extraterrestri, chiedendomi se “La loro vita sarà infelice come la nostra? Anche per loro solo il dolore e il male porteranno distrazione, almeno per qualche istante, all’infelicità? Avranno anche loro quel sogno breve e crudele che è stato chiamato amore?” 
(e cazz, pure l’amore è un sogno crudele mò?) 
Inoltre ho trovato il libro molto debole nella trama, e pur riconoscendo che la storia in questo libro è un accidente periferico, essendo volutamente impregnata di vuoti, labile e fumosa come può essere la trama di un sogno , non riesco ad ignorare certe sequenze che, per il fatto stesso di essere state scritte, hanno un loro peso narrativo. 
Ecco, penso per esempio al sapore patetico della scuola dei bambini morti e al suo custode, attaccato per l’eternità al suo ruolo di bidello (e immagino che anche il maestro cattivo lo sarà per sempre). 
E poi. 
Detesto la pasta al burro. Mi viene una tristezza infinita solo a guardarla.


lunedì 28 ottobre 2013

Bambini bonsai - Paolo Zanotti

Bambini Bonsai
E’ un romanzo indefinibile, “Bambini bonsai”. 
Se provassi a raccontare la trama, potrebbe sembrare un libro per criaturelli. 
Ma non è un libro per bambini, è un libro sui bambini, è un libro sulla presa di coscienza che “l’infanzia finisce, e che una bambina bonsai non la si può sradicare.” 
Sono le ultime parole del libro.

La bambina bonsai è Sofia. 
Sofia ha occhi come gialli e polposi come albicocche, e il suo viso è riprodotto su ogni cosa: scatole, figurine, poster. 
Sofia è come la principessa addormentata da un malefico sortilegio, e un piccolo scudiero coraggioso e innamorato la sveglierà dal suo sonno, la porterà via dal castello, ad affrontare la vita, anzi, la morte. 
Detto così sembra una fiaba, ma della fiaba il romanzo di Zanotti ha solo la ricchezza delle invenzioni, le magie e la valigia di Petronilla, la capo-banda, il deus ex machina dell’inganno e dello svelamento. 
Ma non è una fiaba, lo scenario sembra quello di un romanzo distopico apocalittico fantascientifico: è ambientato in una Genova franata e compressa, in un tempo forse non troppo remoto dove tutti gli animali sono scomparsi, dove tutte le isole del Pacifico sono sommerse da un mare che sembra un mostro di plastica e munnezza, e dove ai padri, se vittime di incidenti, si sostituiscono i pezzi mancanti con protesi meccaniche; dove il sole brucia e fonde, tant’è che solo nelle serre si potrà vivere, dopo l’ultima pioggia, quella che porta anche il gelo e il freddo, quando anche l’ultimo grande agglomerato della città, il cimitero di Staglieno, affollato di case arroccate tra le tombe, lapidi, guglie e statue, verrà abbattuto. 
Ma non è neppure un romanzo distopico fantascientifico nel senso stretto, perché i protagonisti sono bambini che approfittano della pioggia, un evento terribile e mostruoso per compiere il rito di passaggio dall’infanzia (la prima vissuta quasi tutta in un secchio) all’adolescenza e poi all’età del disincanto, all’età adulta, approfittando del “letargo” , del sonno degli adulti. 
Dice Pepe, il protagonista che racconta del suo tempo della pioggia: 
E allora mi chiedo (…) se anche di fronte alle piogge violente, alle piogge vere, la reazione degli adulti non fosse dettata solo dall’istinto, da un’incapacità naturale di venire a patti con la pioggia, ma anche da qualcosa di più ambivalente, un groppo di emozioni che comprendeva la paura del sovvertimento dei giorni, il lutto per le terre erose e sommerse, la nostalgia di quando si erano sentiti vivi. In fondo, dice qualcuno, la paura non è che la sorella cattiva della nostalgia.” 
I bambini approfittano della “vacanza” dei grandi, riunendosi in bande, per fiondarsi in un mondo alieno e spaventoso - una grande avventura - dove tutto si può fare: occupare le stazioni e giocare a fare i mercanti, rintanarsi in una galleria per fare grandi sfide con le automobili, incontrare il mare, grande mostro morente.

E’ forse un romanzo di formazione, scritto in un modo assolutamente originale, ma è soprattutto un romanzo sul potere straordinario dell’immaginazione che è propria di una certa età, quando tutto è possibile: parlare ed essere amici delle statue e di animali estinti, evocare greggi di pecore e animaletti sui bordi dei secchi; di un tempo in cui anche la paura è attraente, e si possono affrontare le ire della natura foderando le scarpe con il cartone; doti a cui, costretti nella gabbia dell’adultità, dobbiamo rinunciare per seguire sogni e segni più concreti. 
E’ stata quella la mia prima perdita. Bambino cresciuto nell’agglomerato senza varcarne mai i cancelli, fino a quel momento mi ero illuso che crescere significasse solo accumulare cose nuove. Ma ecco che dovevo aprire gli occhi. Prendere atto che a ogni nuova tappa occorre rinunciare ai privilegi di quella precedente.”

E’ un romanzo sulla nostalgia di un tempo che non ritorna e che non si può bloccare, così come non ritornano le nuvole vere nel cielo di serra di Pepe adulto.


venerdì 25 ottobre 2013

Hanna e le altre - Nadia Fusini

Hanna e le altre
“Sembra che abbia fatto un bel compitino, ma proprio un compitino”, mi ha detto un’amica a cui questo saggio di Nadia Fusini non è piaciuto molto.
Non condivido, non del tutto. 
Ora sicuramente so qualcosa di più di Simon Weil, di Rachel Bespaloff (che non avevo mai sentito manco nominare), di Hanna Arendt, e anche di tutte le comparse e dei personaggi di sfondo (tra cui ad esempio la Némirovsky) 
Ne so molto di più di quanto ne avrei potuto sapere se avessi spulciato una fredda pagina di Wikipedia o una pallosissima monografia di qualche professore sbrodolone. 

Ecolalie, ecolalie, è una parola ripetuta nel testo della Fusini.
E’ un libro fitto fitto di rimandi, rimandi che svelano un’ “intelligenza” al femminile nell’interpretare e leggere il mondo e la storia. 
Riporto, tra i tanti che ho segnato, un passo che non è “chiave”, che non spiega e non chiarisce il libro, eppure mi rimbomba in un’eco del tutto personale. 
“E non è affatto superbia, il suo distacco, come molti sbagliando credono; Hannah è umile: Hannah ama il mondo, ha semmai un vero e proprio genio dell’amicizia. Ma così come l’intende lei, l’amicizia non è necessariamente intimità, è piuttosto il sentimento oggettivo di “fare un pezzo di strada insieme”. Nel pensiero, naturalmente.”

domenica 20 ottobre 2013

Di vita si muore - Nadia Fusini

nadia fusini
E’ un saggio passionale, il lavoro della Fusini. 
Il prologo è una delle cose più fascinose che abbia letto, induce una smodata voglia di conoscere Shakespeare, ma di conoscerlo come la propria pelle. 
(come un amante) 
Nadia Fusini analizza in modo viscerale (nell’accezione più ampia del termine) una tragicommedia , Misura per misura, e cinque tragedie: Giulio Cesare, Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth; ma vi sono riferimenti all’opera omnia di Shakespeare, alla poesia, alla filosofia, alla critica del 1500 e secoli più e secoli meno. 
Di vita si muore : la passione (la vita) è ciò che spinge a compimento la tragedia. 
“Sì, un uomo muore per il veleno di sostanze malefiche che lo attaccano da dentro. La morte è un’esperienza interna. Così si stupisce Amleto di fronte all’esistenza. 
Ogni occasione lo riporta sempre lì, a constatare che di vita si muore.” 
Dell’opera di Shakespeare viene esaltata la profonda conoscenza e messa in scena degli elementi passionali dell’esistenza umana: la passione della ragione che spinge Bruto ad uccidere Cesare e poi se stesso; la passione del dolore, il lutto, che stravolge Amleto; la lussuria, in “Misura per misura”; l’odio di Iago (il vero deus ex machina, il motore primo nella tragedia Otello); l’ira, la pietà, la paura. 
“E’ vitale morire, è mortale allearsi con l’istinto alla quiete”  
L’analisi della Fusini è puntigliosa, si sofferma non solo sulle azioni e sulle battute, ma anche sulle singole parole, sull’etimologia, sul perché Shakespeare ha scelto proprio un termine specifico e non un sinonimo. Passione al cubo, in questo saggio: la palpabile passione dell’autrice per William, la passione di William per le umane passioni. 
Tuttavia mi difettano i fondamentali, per plaudire o criticare: non ho letto le tragedie di Shakespeare (e manco conosco la poesia e la filosofia e i testi biblici dall’origine della scrittura ai tempi nostri). Da lettrice non edotta, posso solo esprimere le impressioni epidermiche senza entrare nel merito dell’analisi : una eccessiva prolissitudine , un pò di scetticismo quando la lettura in chiave cristiana dei personaggi e delle azioni diventa invasiva e pervasiva (e può pure essere, però a tratti mi sono sembrate proprio esagerazioni). 
Per il resto debordantemente e sinceramente appassionante (come sottotitolo comanda).


venerdì 18 ottobre 2013

L'ubicazione del bene - Giorgio Falco

Falco Giorgio
Pensavo che si trattasse di un romanzo, e invece è una raccolta di racconti. 
Pensavo che fosse un libro di impianto filosofico (quando si dice l’inganno del titolo), ragionamenti intorno all’idea di bene come cosa buona e giusta, e invece la narrazione ha un tono terrestre, quotidiano, e il bene è un bene materiale: una villetta ubicata a Cortesforza.

Un filo conduttore tra i racconti però c’è, ed è quel luogo. 
Non esiste, Cortesforza, borgo residenziale a qualche chilometro da Milano, eppure di Cortesforza sono piene le aree periferiche delle grandi e piccole città. 
Tutte le cose accadono entro venti chilometri. La distanza da casa al lavoro, da casa al supermercato. Venti chilometri. All’inizio lui pensa che quello spostamento sia un piccolo viaggio, dopo dieci ore di lavoro può ricomporre se stesso, ma al semaforo di Trezzano sul Naviglio lui fa parte di una promiscuità aggressiva, volgare, feroce nel cercare il proprio posto nel mondo, conta solo avanzare mezzo metro, allungare i radiatori accaldati per conquistare o difendere la posizione, una distesa di lamiera urlante, lo sbuffo bianco delle marmitte, le gocce cancerose che istillano, ancora prima della malattia, un amarognolo diffuso e incredulo, una distesa di lamiera parlante ora opaca ora illuminata da improvvise schegge di rosso, che tracimano dall’asfalto alle sponde del Naviglio Grande, fino all’acqua nera, che riflette.” 
(pari pari al ritorno a casa via tangenziale o circumvallazione esterna, anche se non ci sta il Naviglio e manco l’acqua nera)

La villetta con il giardinetto, la casarella dove vivere quieti gli anni della pensione se un figlio pazzo non ti porta un boa in casa, il nido dei freschi sposini o la casa dove accogliere l’uccellino degli sposini un poco sereticci, l’appartamento senza balconi, il casale da ristrutturare, il capannone diventano scatole di vetro dove vengono esposte le fratture, le crepe, le voragini della vita contemporanea: acredini e insoddisfazioni, incomprensioni e frustrazioni, perdite e smarrimenti, solitudini. 
Uammamà, e che tristess.

(I racconti sono scritti bene, il taglio e la prospettiva interessanti. La materia narrata, quella, ce l’ho sotto gli occhi e preferirei guardare altrove, è l’altrove che mi serve per non rischiare la neuro, ma tant’è, c’è a chi piace il coltello nella panza e si arricrea pure. 
Io no.)

domenica 13 ottobre 2013

Il vangelo secondo Biff - Christopher Moore

Biff
Moore, autore da cazzeggio per eccellenza, ha avuto un’idea  geniale, raccontando la  storia  del leader  maximo del cristianesimo, visto con l’ottica di un amico la cui presenza è cancellata da  tutti i vangeli.

Levi detto Biff era un discepolo. Anzi, molto più che un discepolo, più ancora che il primo discepolo: era l’amico del cuore di Gesù sin dall’infanzia.

E’ l’angelo Raziel ( ho controllato, esiste veramente nella gerarchia angelica cherubinica arcangelica, è una specie di messaggero che fa da tramite tra le alte sfere e i terrestrini), nell’immaginario Mooriano personaggio inzallanuto e pure baccalone, a recuperare dalla cenere della cenere il caro Biff, e a costringerlo, trattenendolo in una camera di albergo,  a scrivere la sua versione dei fatti accaduti 2000 anni prima. 
(mentre in contemporanea, Maria Maddalena detta Maddi scrive la sua) 

Ed è proprio  nell’interregno tra la nascita e i trent’anni di Gesù, ovvero gli anni cruciali della formazione di ogni essere umano, dove la tradizione pone il vuoto narrativo, che Moore dà il meglio di sé.
Attraverso e con la partecipazione straordinaria di Biff, racconta dell’infanzia di Gesù e dei superpoteri da controllare (mica tutti riescono a incantare i serpentoni), degli scompensi ormonali adolescenziali e dei dubbi esistenziali (sono o non sono il figlio di Dio?), del viaggio verso Oriente alla ricerca di chi possa guidarlo a far bene il ruolo di Messia. 
Chi meglio dei re magi avrebbe potuto interpretare il ruolo di maestri?
Saranno loro  i maestri di Gesù e del riottoso Levi, che di certo  non era mica il Messia, sicchè è ovvio che pur con l’impegno non sarebbe mai riuscito  a incartocciarsi in una brocca per il vino,  a guarire, a  resuscitare, a praticare l’astinenza sessuale.
Tante avventure e tanti incontri faranno i nostri eroi, dalla  Persia fino a Kabul per trovare Baldassarre,  fine alchemista, esperto in Confucio e  Tao (compassione, sobrietà e umiltà) e in Chi e Qi, in Yin e Yang,  ma ingrippato e prigioniero di un demone e di uno stuolo di cinesine nella folle ricerca dell’immortalità.
E da Kabul alla Cina, per apprendere dal maestro Gaspare i fondamenti del Buddhismo (compassione e amore incondizionato) e i rudimenti del Kung fu, tra  yak e abominevoli uomini delle nevi e abominevoli vecchie delle capanne,  fino in India, dove, bypassati  i sanguinari devoti di Kalì (scompiscianti le sequenze del travestimento da dea della distruzione)  Gesù e Biff  incontreranno   Melchiorre, l’asceta arroccato nella montagna. 
Per un po’  le loro strade  si divideranno, ognuno  a seguire le proprie attitudini specifiche, Gesù a interiorizzare i principi del Bhagavad Gita,  Biff a imparare e praticare  il kamasutra.   
Moore non  risparmia nessuno tra i rappresentanti delle grandi religioni, e meno male che Maometto è venuto dopo, che altrimenti almeno un migliaio e mezzo di fatwe se le sarebbe attirate.

Negli ultimi capitoli, pur interpretando in modo “scanzonato”  i tempi della predicazione  e della passione,  il racconto assume una venatura dolente, melanconica, “ispirata”.
La “blasfemia” in questa storia è solo apparente:  si legge un sentimento di profondo rispetto e stima nei riguardi della figura di Gesù, che incarna il meglio del meglio di tutte le religioni precristiane. 
Non è certo un miscredente, Moore. 
Solo un cazzeggiatore. Ed è per questo che avrei preferito di gran lunga che avesse fermato Biff e il suo racconto/vangelo  prima di arrivare in Galilea.
Biff sarebbe potuto  morire di sifilide, o anche per una caduta da cammello (da ‘mbriaco, s’intende), e la sua testimonianza quale amico di infanzia di Gesù avrebbe avuto il medesimo valore. 

domenica 29 settembre 2013

La deriva dei continenti - Russell Banks


Banks Russell
La deriva dei continenti è un fatto scientificamente provato e inarrestabile.
Sul perché le zolle continentali si muovano, le teorie sono diverse e non universali.
Anche le masse umane, i singoli individui, sono spinti al movimento, e le cause,  non le teorie sulle cause,   sono diverse.
Trovare un filo comune a questa “necessità”  davvero appare  un disegno difficile e ambizioso: se Banks ci fosse riuscito, avrebbe scritto un capolavoro.

Nel libro si incrociano  storie di “migranti”.
Il  trentenne riparatore di bruciatori a nafta, Bob Dubois, vive nel New Hampshire:  ha una casetta, una barchetta, una Chevrolet scassata,  “Vota per i democratici, come faceva suo padre, di tanto in tanto va a messa con la moglie e le bambine e crede in Dio come ai politici: sa che esiste, ma non conta su di Lui. Ama la moglie e le figlie. Ha un’amante. Odia la sua vita.”
Lascia la sua vita, portandosi dietro moglie e figlie e Chevrolet, per cercarne un’altra più comoda, più agiata, più consona al  “sogno americano”.
Vanise è una giovane madre haitiana.
Lascia la sua terra, con il figlio attaccato al seno  e il nipote adolescente, non  per ricercare la felicità  ma per  sottrarsi alla morte sicura.
Crede nel potere dei Loa, sa  che il destino degli uomini conta poco di fronte agli invisibili, e l’altra morte, quella della dignità  che subisce durante il viaggio, la rende impermeabile alla sofferenza,  al rullio delle onde e alla brutalità degli uomini.
Sarà ancella  di Ghede e sopravviverà .
Bob e Vanise sono come due continenti alla deriva, anche se le cause del loro migrare sono diverse.
La deriva dell’uno e dell’altra li porterà a cozzare, a scontrarsi,  e dal loro  incontro non verrà fuori che altra desolazione e sofferenza.

L’idea di sovrapporre  l’urgenza della natura umana che spinge uomini a lasciare ciò che sono per una vita altra all'ineluttabilità del movimento  degli elementi  è affascinante,  ma in realtà Banks non è questo che fa.
Le giustappone soltanto.
Quello che tenta di fare, da bravo maestrino, è spiegare  - come se non lo si sapesse – attraverso le storie  di Bob e Vanise, che il mondo  con le luci e gli attici, il sogno di avere e possedere di più, la comodità, il gradino più alto da raggiungere, sono  la causa ultima di tutte le derive dei continenti rappresentati dai  singoli  uomini o da fiumi di uomini. 

La chiusa del libro, l’Envoi, mi è sembrata alquanto fumosa e contraddittoria (nonché presuntuosa).
Scrive Banks:
“Si scrivono libri – romanzi, racconti e poesie – infarciti di dettagli che tentano di spiegarci che cos’è il mondo, come se la nostra conoscenza di persone come Bob Dubois e Vanise e Claude Dorsinville servisse ad affrancare gente come loro. Non servirà. Conoscere i fatti della vita e della morte di Bob non cambia nulla nel mondo. Che noi celebriamo la sua vita e piangiamo la sua morte, lo farà. Gioia e lutto per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate – anzi soprattutto quelle – priverà il mondo di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque sono gli obiettivi di questo libro. Và,  mio libro, e contribuisci a distruggere il mondo così com’è.”
( ????)
Ma se è davvero insito nella natura dell’uomo  cercare – o sperare nel cambiamento, -  a che è servito costruire il parallelo con la deriva dei continenti?
Qual è il sabotaggio, qual è la sovversione affidata al libro per privare il mondo  di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso, e dunque per sottrarsi alla natura insita nell’uomo del cercare il o sperare nel cambiamento?
 Si stia buoni e fermi, sembra dire l’autore, meglio sovvertire l’ordine del mondo  accontentandosi di quello che si è e si ha.
(e sti cazzi.  Non è un caso che le  religioni che pospongono la felicità oltre la vita, sotto forma di paradiso o di giardini fioriti o di karma migliori,  si siano imposte in modo così  globale -  se non lo puoi fare qua, almeno ti si apra il contentino per dove e quando non si sa; stai buono e fermo,  perchè se invece segui la natura, tanti guai ne ricevi, punizioni, punizioni, inferni peggiori di questi!  )
Vanise,  affidandosi ciecamente alla forza di Loa, sopravviverà.
(Ma non vivrà mai più. Sopravviverà soltanto.)
Bob, cercando di far pace con la propria coscienza urlante, morirà.

Le storie di Bob e Vanise hanno una sorta di epicità – eroi negativo l’uno e positiva (? ) l’altra, e  si leggono anche voracemente, si è spinti a sperare  la giusta ricompensa  per Vanise,  non una vita da zombie  attaccata alle vesti del santone,  e  non si riesce ad odiare Bob,  nonostante i suoi errori, perché è un inquieto, tormentato dai un’inquietudine nella quale è addirittura possibile intravedere noi stessi.
Tuttavia, sarebbe stato davvero bello e molto più interessante  approfondire il tema  della deriva dei continenti nel parallelismo tra cieca forza geologica e istinto umano.
Bank non lo ha fatto.
Non credo che il suo libro contribuirà a distruggere il mondo così com’è.

Però sono sicura che se un regista bravo e sufficientemente visionario volesse, snaturandolo, trarne ispirazione, potrebbe fare un qualcosa di nettamente superiore al libro.
Un regista come Darren Aronofsky.








sabato 28 settembre 2013

Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa

Questo non è un libro per intellettuali. 
Nessun tipo di ambizione letteraria vi è in questo romanzo, né per quanto riguarda lo stile e il linguaggio, né per quanto riguarda i temi e i contenuti. 
Che Letterarietà può avere un libro che parla di una prepotenza rimossa dal mondo occidentale, di madri e padri che piangono i figli perduti e di solitudini di bambini, di sopraffazioni che nutrono la rabbia, e ancora e ancora, da oltre 4 generazioni? 
(e non è finita, non è ancora finita)

Attraverso le vicende di quattro generazioni della famiglia Muhammad Abulheja, si racconta la storia del popolo palestinese, dal 1941, quando la vita era semplice e serena nel villaggio di ‘Ain Hod, ad est di Haifa, fino al 2002. 
La storia racconta di Al-Nakba, la catastrofe, così come è chiamata l’espulsione dalle terre avvenuta nel 1948; il confluire dei palestinesi negli enormi campi-profughi, a consumare le giornate in attesa di poter tornare a casa, tra gli ulivi. 
Racconta di Al-Naksa, il disastro, la guerra arabo-israeliana del 1967; della guerra del Libano; dell’Intifada. 
Racconta di matrimoni e di nascite e di giochi e di risate e di odori e di ricordi indelebili. 
Racconta di morti e di violenza e di sradicamenti, di rabbia e vendetta e impotenza.

Indigna e fa soffrire, eppure è un libro pieno, stracolmo di amore. 
“Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, (…) la nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. 
E’ un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. E’ un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.” 
E’ vero, quella araba è una cultura distante: il legame con la terra, con la famiglia allargata, con Dio. 
(una fede che non viene mai meno, anche quando la sordità di dio è conclamata da miliardi di preghiere sciolte tra le bombe e la cenere e la polvere) 
Le vicende raccontate non possono lasciare indifferenti, anche una pietra piangerebbe, pure chi è abituato a “qualunque cosa senti, tienitela dentro”.
(ho pianto)

Dice l’autrice nella nota: 
"Anche se i personaggi di questo libro sono fittizi, la Palestina non lo è, né lo sono gli eventi storici e i dati riportati in questa storia." 
Poco importa se nella finzione narrativa è una sola famiglia a rappresentare l’intera Palestina, rendendo il racconto troppo sbilanciato in senso sentimentale. 
Qualcosa di quel che ha vissuto il personaggio Yussef è successo all'uomo Haamid, qualcos’ altro a Jamaal , a Muhammad e così via. 
In una famiglia un intero popolo.
Il libro è scritto per emozionare, per toccare il cuore, per mordere le intorpidite coscienze occidentali, così distanti, così distratte, così assenti. 
Non vi è neanche acrimonia nei confronti degli usurpatori. 
Un tantino forzatamente, la voglia di riconciliazione che giustifica il personaggio Isma’il/David, si esplicita nel finale che vede convivere, sotto lo stesso tetto, rami dello stesso albero, “un’americana, un israeliano e un palestinese”. 
E nella pagina conclusiva, naturalmente. 
In questa storia non vi sono cattivi. 
Tutte vittime. 
E in un certo senso è così.

Non è un libro per intellettuali: avrebbe avuto  tutti i crismi per sfondare presso il grande pubblico. 
E invece, non è successo. 
Il cacciatore di aquiloni è stato un best sellers (film e annessi e connessi) e Ogni mattina a Jenin non lo è stato. 
Eppure quello, il cacciatore,  è stato pubblicato da Piemme, che certo non ha la capacità pubblicitaria della Feltrinelli. 
Non credo che ci entri tantissimo la trasposizione cinematografica. 
Un pensiero acido e cattivo si insinua, non ci posso fare nulla.
“Nel mondo arabo, la gratitudine è di per se stessa un linguaggio. “Che Dio benedica le mani che mi porgono questo dono”; “La bellezza è nei tuoi occhi che mi vedono graziosa”; “Che il Signore ti doni una lunga vita”, “Che Dio non respinga mai le tue preghiere”; (…) e via dicendo, una serie infinita di ringraziamenti e di benedizioni. Venendo da una cultura simile, ho sempre trovato insufficiente un semplice “grazie”, come se rendesse misera e ingrata la mia risposta.” Pag. 206. 

Che la commozione che trasmette questo libro venga letta e sentita da un miliardo di persone, e faccia da lasciapassare per una nuova consapevolezza della Storia.

giovedì 26 settembre 2013

Noi del Rione Sanità - Antonio Loffredo

Il libro non ha “valore letterario”. 
E’ la testimonianza, un po’ retorica (gli obiettivi formativi prefissati) e un po’ appassionata, di un parroco che è stato chiamato a “gestire” una comunità e un territorio difficili, e che ha trovato nella cultura la chiave di volta del cambiamento. 
E’ la testimonianza di un parroco che se avesse fatto solo un terzo delle cose che scrive di aver fatto, meriterebbe una statua d’oro .
Ne ha fatte più di un terzo (le altre le devo verificare). 

http://www.catacombedinapoli.it/index.asp

Certo, la Sanità non è un agglomerato di celle con niente attorno se non altre celle e strade e munnezza, un piccolo vantaggio Don Antonio pure ce l’ha avuto, però chissà come mai prima nessuno ci aveva pensato alla storia ai monumenti alle tradizioni, alla cultura che è lievito che può dare il pane.

Tanti preti che blaterano solo, e pure a dire messa sopra l’altare ci vanno con la scorta (ma non solo i preti) dovrebbero imparare dal racconto di questa esperienza qual è la differenza tra il dire e il fare. 
Di mezzo non c’è solo il mare, ma la dignità.

sabato 14 settembre 2013

La schiuma dei giorni - Boris Vian

Vian Boris

Per entrare nel mondo di Vian e del suo romanzo occorre destrutturarsi. 
Rimuovere ogni “normale” concezione di spazio e di causa-effetto, per addentrarsi in una prospettiva apparentemente a-logica . 
Vian concepisce un mondo totalmente alieno, incuneato dentro un linguaggio che si muove per suggestioni. Associazioni di idee assolutamente stranianti. 
“un’uniforme e una catena che brillavano come nasi freddi”. 
“ imitando (…) il volo di un cucù di pastafrolla” .

A descriverlo con due parole lo definirei un romanzo floreale. 
Timido spunta, sboccia rigoglioso, impudico, e si ripiega su se stesso, appassendo e rinsecchendosi fino a cadere polverizzato. 
Non vi è assenza di storia, anzi. 
Ciccino suo, costruisce una storia che è vera perché l’ha scritta lui - Vian si dedica il libro “Per me, Ciccino mio” - e perché, al di là dei surrealismi, dice la verità . 
La schiuma dei giorni racconta la parabola di un amore. Anzi, di più d’uno, perché, per Vian , ciò che conta è l’amore in tutte le sue forme, anche in quella ossessiva di Chick il collezionista di cimeli.

L’inizio, le case e il paesaggio si dilatano a dismisura , le finestre accolgono due soli che illuminano le piastrelle e riverberano in gocce solide. L’ansia da innamoramento si materializza nelle cose, nel cibo, nella musica, nel piacere dell’invenzione (oh, il pianocktail, triste destino). 
Nicolas non si accontenta mica, vero cuoco- gourmet. Ma Chick e Alise, Colin e Chloè iniziano la strada di coppia seguendo traiettorie diverse, che terminano entrambe in un baratro doloroso. L’una vinta dalla malattia, evento naturale, fiore che distrugge fiori, la ninfea nel polmone. 
L’altra vinta dalla monomania, inaridita dall’ossessione per un “oggetto”. 
Che sia il collezionismo e il fanatismo verso l’eminenza culturale Jean- Sol Partre , è solo un dettaglio, non trascurabile, ma è un dettaglio. L’anarchismo di Vian non preserva alcun mito. 
E durante questo tempo, il tempo della malattia e della monomania, fiocca la critica alla società. Il formalismo della religione, il lavoro che soffoca e annichilisce l’uomo, la grettezza di medici e bottegai, la cecità del burocratichese e delle forze dell’ordine. 
E l’epilogo. Case che si rimpiccioliscono quasi fino ad implodere, cuori strappati, fiamme e fuoco, fossati che inghiottono anima e lacrime.

Tristissimo e bellissimo. 
Lo avrei apprezzato anche solo per il godimento prodotto dalle invenzioni linguistiche e dallo spirito anarchico, e invece mi è toccato pure emozionarmi.

venerdì 13 settembre 2013

Trilobiti - Breeze D'J Pancake

Trilobiti è la raccolta degli unici 12 racconti di un giovane scrittore americano morto suicida. 
I protagonisti sono minatori, contadini, benzinai, gente che si arrangia come può: è il proletariato  di un’America  non lontana dalle grandi città moderne e vivaci, ma rinchiusa tra le montagne, per molti versi ancora arcaica; i personaggi sembrano bloccati  in una sorta di incapacità di movimento, di mutazione, di evoluzione.
Quasi vivono con rassegnazione il loro destino immutabile: sono inselvatichiti, anzi  selvatici , selvaggi e primordiali nelle azioni – la caccia,  lo sventramento delle prede, la lotta, la violenza verbale nei pochi radi discorsi – o restano incastrati  nel ricordo di qualcuno o di qualcosa, incatenati ad un momento del passato.
Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni”. 
Trilobiti viventi. 

Le notizie biografiche su Pancake, i lati ombrosi del suo carattere, il suicidio a 26 anni, sono tali che, inevitabilmente,  attorno all’autore e al suo libro si sia costruito una sorta di culto.
(il culto del rimpianto, il manifesto della disperazione)
A me, la verità, l’opera prima e unica di Pancake  non sembra il capolavoro acclamato da molti. 
Tra tutti, solo alcuni racconti mi sono piaciuti davvero – Una stanza per sempre, L’attaccabrighe, La mia salvezza.

Ho sentito l’odore di troppo acerbo, come sentieri appena tracciati: racconti di legno verde.  

lunedì 9 settembre 2013

Nella gabbia - Henry James

Nella gabbia c’è una telegrafista. 
Chi invia i telegrammi, o compra i francobolli per inviare lettere, è gente dell’alta borghesia e della nobiltà. 
Sono i ricchi, quelli che possono permettersi di comunicare a distanza all’inizio del XX secolo. 
Ed è a loro, con invidia mascherata a parole da disprezzo, che la telegrafista mira. 
Vorrebbe essere una di loro. 
La telegrafista coglie tra le migliaia di parole da contare, anche quelle che nascondono intrighi amorosi, tracce adulterine, galanterie sconvenienti. 
La sua fervida fantasia, o si immagina o si muore, la porta a credersi parte indispensabile e utilissima nella catena degli altrui intrallazzi: lei sa cose, decripta segreti. 
Mentre tiene in mano senza troppo entusiasmo il fidanzamento con il droghiere - che squallore, una vita da trascorrere nella modestia illuminata da una lampada a petrolio – costruisce giganteschi castelli di aria fritta, sperando, senza tuttavia essere troppo sfacciata - il perbenismo vittoriano si insinua nei ranghi della bassa borghesia più che altrove – che si avveri il sogno del balzo sociale, un matrimonio con un capitano, ad esempio. 
Ma i telegrammi rimandano solo straccetti di appuntamenti, il suo credere di sapere si rivela fallace quanto il suo sogno.

Pensavo alla terribilità della gabbia. 
Non come luogo di lavoro, ma come gabbia delle aspirazioni. 
Come avrebbe potuto cambiare la vita della telegrafista, se non attraverso un matrimonio “interessante”? 
Quanto sarebbe stato disdicevole esser zitella, per lei, piuttosto che prendere un marito il droghiere solo perché ne fa richiesta e ha una condizione economica non peggiore della sua, e che delusione e senso di pochezza, allora, rispetto alla propria esistenza. 
I movimenti femministi cominciavano a far sentire la propria voce, già allora. 
Eppure la telegrafista non vede nessuna altra forma di realizzazione personale se non quella legata all’ascesa economica e sociale, così come la sua amica fiorista, che frequenta le case delle nobilsignore più per accalappiare i single che per vantare la propria creatività. 
Che brutti tempi, erano quelli.

Però, a pensarci bene, anche adesso, eh. 
Di telegrafiste è pieno ancora il mondo, purtroppo. 
Sono sicuramente più sfacciate, ma tant’è, il risultato non cambia.